Noi, ostinati artisti della fuga

In inglese ‘viaggio’ si dice ‘travel’, a suo tempo sinonimo del fancese ‘travail’ che significa lavoro, sofferenza… travaglio appunto. Il termine nasce durante il periodo settecentesco e ottocentesco per indicare il modo in cui si viaggiava e le grandi fatiche intraprese dai viaggiatori. Inizialmente infatti il viaggio era inteso come necessario spostamento per lavoro, per impegni improrogabili, per incontri. Si doveva passare di città in città cambiando spesso cavalcatura e fermandosi con frequenza ai punti di ristoro, le post. Un tempo per spostarsi dalla propria residenza ci si impiegava intere giornate, con non pochi pericoli e gran sfinimento fisico e mentale per i viaggiatori. Altra cosa erano invece i viaggi dei giovani nobili, ragazzi nel fiore degli anni che venivano spediti in giro per il mondo dalle famiglie benestanti, allo scopo di forgiarne uomini atti a prendere in mano al loro ritorno le redini della loro vita. Questi erano viaggi di formazione, d’avventura, nei quali i giovani (solo uomini, ovviamente) vivevano esperienze che sarebbero rimaste loro impresse nella memoria per sempre. Un viaggio di iniziazione all’età adulta, ma anche l’unico viaggio della loro vita, da vivere con la leggerezza d’animo che non avrebbero più potuto manifestare al mondo al loro ritorno. Nei loro peregrinaggi, quasi sempre in giro per l’Europa, chiedevano di essere ricevuti da grandi pensatori del loro periodo, studiosi, filosofi e poeti. Facevano conoscenze che avrebbero sfruttato in futuro, si facevano uomini nel corpo e nella mente. I percoli erano tanti, ma alto il senso di sprezzante vitalità.
E la Montagna, come si inserisce in questo contesto del viaggio? All’inizio dell’ottocento la montagna diventa simbolo del ‘oltre-umano’. L’alpinismo è in voga e la vetta diventa simbolo del sublime da raggiungere. Nasce il CAI, il Club Alpino Italiano, e la montagna il campo da gioco dei più ricchi. Nel tempo il turismo ha perso il suo carattere di peripezia per assumere sempre più quello di un evento di massa, di un comportamento gregario e a volte disumanizzato. Nasce quindi spontanea una domanda: nell’era del turismo di massa ha ancora senso viaggiare? Camminare? Per come la vedo io il cammino ha sempre il suo movente, la spinta alla scoperta di altro da sé è già di per sé uno scopo. L’importante è che il cammino non diventi un ostinato tentativo di fuggire da ciò che abbiamo intorno, ma anzi il mezzo per imparare a rendere più profonda la conoscenza delle cose prima di tutto vicine. Non preoccupiamoci di come la gente intorno a noi vive un luogo, preoccupiamoci noi di trasmettere a queste persone il modo più bello (non più giusto) per viverlo. Non restiamo semplici turisti, trasformiamoci in attori del paesaggio, delle nostre città. Partecipiamo agli eventi del nostro paese. Per poter dare al nostro piccolo paese o alla nostra città un senso diverso del poterlo vivere. Attiviamoci per dar valore a noi stessi e a far sì che quella ‘C’ del CAI da ‘Club’ diventi ‘Comunità’ !!

Autore: Antea Franceschin – Controvento Trekking

Pubblicato sulla Rubrica Scarponi Rotti – giornale Rosso Parma

Data: 26 aprile 2018